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fame emotiva

Cosa fare per fermare il circolo vizioso della fame emotiva

Il primo passo per interrompere la fame emotiva è la consapevolezza e pertanto apprendere a distinguere la fame fisica da quella emotiva.

In tal senso può essere utile: chiedersi “sto mangiando per un reale bisogno fisico o per uno stato d’ansia, un abbassamento dell’umore?” e tenere un diario dove annotare cosa e quando si mangia, quali eventi abbiamo vissuto, cosa abbiamo provato e con chi ci trovavamo. È utile segnare il cosa si prova prima di divorare un cibo e cosa si prova dopo averlo fatto. Ciò può aiutarci a rintracciare i motivi che spingono verso il cibo, le emozioni che si provano e i bisogni che si tenta di soddisfare.

È importante inoltre riflettere sui significati che il cibo riveste, cosa ha rappresentato nella nostra storia e cosa rappresenta nei legami che viviamo. Se il cibo viene utilizzato per compensare o riparare stati emotivi intollerabili allora si può cercare di individuare altre azioni che si possono mettere in atto per gestire l’ansia e l’umore.

Da dove nasce quella voglia di gratificarsi attraverso il cibo

Le origini di quanto descritto possono essere rintracciate nel tipo di relazione instaurato tra il bambino e le prime figure di attaccamento; relazione che viene mediata anche dalle modalità con cui viene curato l’aspetto alimentare. Un tratto comune delle madri con figli con problemi di obesità è proprio quello di aver imposto al figlio il proprio concetto rispetto a quelli che sarebbero stati i suoi bisogni.

Se la madre nutre il bambino sulla base di propri convincimenti quali, ad esempio, quello secondo cui un bambino grasso è un bambino bello e sano, o quello secondo cui il cibo deve essere fornito secondo precisi schemi in termini di quantità, qualità e orari, questa madre non tiene conto delle effettive e fisiologiche esigenze del piccolo; perciò con il tempo il bambino, avendo difficoltà a percepire lo stato interno di bisogno e di desiderio, comincerà a nutrirsi dipendendo da segnali e fattori esterni.

Può accadere inoltre che la madre sia distante affettivamente dal bambino, pur essendo molto presente rispetto al suo compito o ruolo. Il bambino può allora percepire il cibo come surrogato dell’affetto e, diventato adulto, potrà assumerlo con questa stessa valenza: le emozioni vengono canalizzate solo attraverso il cibo e l’elaborazione psichica del disagio è sostituita dalla gratificazione che proviene dalle sensazioni corporee.

Quella voglia smisurata di cibo

Rispetto alle cause, il cibo può diventare una sostanza da cui dipendere psicologicamente quando è vissuto o percepito come valvola di sfogo, come rifugio o come sostanza analgesica contro le sofferenze vissute durante la giornata, o contro situazioni di disagio o di conflitto. Pertanto stati d’animo come ansia, depressione, stress, inibizione emotiva possono influire sul rapporto con il cibo e causare un aumento di peso.

Spesso il cibo non è gustato, ma ingurgitato per riempire in fretta un opprimente senso di vuoto interiore, confuso con la sensazione di fame vera e propria. Mangiare, o meglio abbuffarsi, allora, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive.

Il cibo può compensare un’affettività carente o non gratificante, può placare un’aggressività non altrimenti esternata, può attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, può consolare da delusioni, fallimenti o eventi traumatici (come lutti, separazioni…). Spesso la rabbia, la tensione, la noia ed altre emozioni sono confuse con la fame.

Perché si sceglie il partner sbagliato

Nell’arco dell’esperienza umana, sin dall’infanzia gli individui elaborano schemi automatici, stabili e per lo più inconsapevoli, per far fronte alla complessità delle relazioni precoci e affettivamente salienti, e generalizzano il sistema di emozioni, pensieri, comportamenti e significati acquisiti ad altri rapporti d’amore nell’età adulta. Il risultato di tali schemi o copioni psicologici è la riproduzione, in tempi, circostanze e con persone diverse, di situazioni “antiche” che si presentano ad un tratto con la stessa carica emozionale del passato e si risolvono (purtroppo) in modo analogo.

Cambiare è possibile, purché si voglia cambiare se stessi e non l’altro e a condizione che si decida, a fronte della propria infelicità sentimentale, che qualcosa nel proprio modo di vivere le relazioni “non funzioni” come vorremmo. Maturare una disponibilità al cambiamento è, dunque, la prima sfida per chi si accosta a un percorso di psicoterapia finalizzato a recuperare l’equilibrio perduto e, in alcuni casi, mai davvero conquistato.

Lo stereotipo dominante afferma che la psicoterapia sia un impegno gravoso, un luogo doloroso e angusto: non è così. Al contrario, una terapia psicologica ha lo scopo di semplificare e accelerare il cambiamento personale e spezzare quegli schemi che impediscono la realizzazione dell’individuo. Come ogni viaggio, presenta tappe impegnative come momenti di assoluta leggerezza e gioia.Un viaggio verso l’autenticità.

Cosa succede in una famiglia quando il figlio/a dichiara la propria omosessualità

Qualsiasi rivelazione dei figli viene vissuta come destabilizzante dalla famiglia. Il coming out , anche se i genitori nutrono dei sospetti, li coglie di sorpresa. Le reazioni sono molteplici, chi caccia il proprio figlio di casa, chi non parla più , chi limita la loro libertà ma nella maggior parte dei casi dopo un periodo di confusione si accettano.

La prima fase dopo il coming out dei figli consiste nei sensi di colpa; si interrogano dove hanno sbagliato, di essere loro la causa dell’omosessualità, di non essere stati troppi rigidi nell’educazione. Poi si passa alla vergogna, all’imbarazzo e poi al dolore causato, dalla paura che i propri figli possano essere deprivati dei propri diritti e delle proprie libertà e di non poter dimostrare al pubblico il proprio amore.

Passate queste fasi il tempo aiuterà a portare equilibrio nei rapporti, i genitori dovranno fare un viaggio insieme ai propri figli per metabolizzare la nuova situazione; chi ci metterà di più chi di meno, ma l’importante è parlarne con il figlio e con gli amici affinché la situazione sia normale. Il non parlare e il far finta di nulla porterà solo ad innalzare un muro di silenzi.